sabato 13 ottobre 2012

VIOLENZA VERBALE E VIOLENZA EFFETTIVA - di Rita Ciatti




di Rita Ciatti
Vorrei chiarire la mia posizione sulla violenza verbale talvolta manifestata da alcuni animalisti nei confronti di chi sfrutta e uccide gli animali, così come sulle varie espressioni di giubilo spesso intonate alla notizia di cacciatori che si sono sparati tra di loro, toreri incornati, macellai cui è partito un dito mentre affettavano un maiale e così via.
Dunque, cercherò di essere il più chiara possibile, sperando di non essere fraintesa.
Penso che definire un animalista verbalmente violento solo perché a sua volta accusa un macellaio o un vivisettore di essere appunto un violento, un aguzzino ecc. sia, quanto meno, paradossale. Voglio dire, per quanto nella nostra cultura e società la violenza dello sfruttamento animale sia normalizzata ed accettata, rimossa e negata, credo che l’atto dello sgozzare un maiale o del provocare stress sui topi nei laboratori tramite scariche elettriche sia, e rimanga, inconfutabilmente, quale sia la maniera in cui lo si voglia vedere, un atto violento. Mi rendo conto che dal singolo consumatore (che brutta questa parola, “consumatore”, ma tant’è) tale violenza non venga affatto percepita o venga considerata tutt’al più “necessaria”, “utile” per una serie di ragioni legate ad un massiccio condizionamento culturale sul quale sarebbe ozioso dilungarmi al momento, ma, tuttavia, l’atto di uccidere, schiavizzare, sfruttare miliardi di esseri viventi rimane un atto indiscutibilmente violento. Mi rendo conto tuttavia che esistono toni e toni e che stigmatizzare una violenza effettiva tramite una violenza verbale è altrettanto paradossale del macellaio che accusa l’animalista di essere violento: si tratta di due tipi di violenza, quella effettiva certamente peggiore di quella verbale – la quale, quest’ultima, potrebbe pure essere definita “difensiva”, in quanto interviene per denunciare la prima – ma rimane pur tuttavia un esercizio gratuito; inoltre dare dell’assassino ad un mangiatore di bistecche non solo indispone immediatamente l’interlocutore inducendolo a mettersi sulla difensiva anziché invitarlo all’ascolto, ma è anche del tutto inutile e fuorviante ai fini della liberazione animale. Urlare e sfogarsi contro chi sfrutta gli animali rimane, nel novantanove per cento dei casi, l’urlo inascoltato di un ego esasperato ed inacidito. Io capisco la rabbia, la frustrazione che scaturiscono dalla consapevolezza dell’orrore dello sfruttamento animale e quindi l’inevitabile reazione di pancia che spesso porta gli animalisti ad inveire contro gli aguzzini, ma sono altresì consapevole che non saranno gli insulti e le offese a liberare gli animali. A volte su Facebook vedo girare drammatiche foto di animali morti, fatti a brandelli, insanguinati e giù a seguire una sequela di insulti diretti agli esecutori di tale scempio: “maledetti assassini“, “mi auguro che tu crepi“, “ti farei questo e quell’altro“.
Ora, ripeto, inutilità a parte di questi sfoghi di rabbia – che appunto tali sono, sfoghi, per l’appunto – mi pare evidente che NON è in questo modo che si faranno progressi nella liberazione animale. Non è augurando la morte a tizio e caio che verrà decostruita la cultura dello sfruttamento animale.
Mille volte più costruttivo, anziché distruggere verbalmente l’altro, è rispondere – anche in maniera decisa, chi dice che dobbiamo essere agnellini? Io no di certo! – mettendo in evidenza le falle del ragionamento di chi sostiene lo sfruttamento animale o vorrebbe negare l’evidenza della sofferenza degli animali.
Se io comincio a dare dell’assassino a tizio perché mangia la carne, tizio mi replicherà a sua volta dicendomi, nella migliore delle ipotesi, che sono esagerata, oppure insultandomi per tutta risposta. Nel frattempo gli animali continueranno a morire dentro gli allevamenti e nei macelli e di certo non si sentiranno sollevati nel sapere che c’è qualcuno che si è preso la briga di dare dell’assassino ai suoi aguzzini.
Allo stesso modo, augurarsi la morte del cacciatore, del pellicciaio e del torero, non è molto costruttivo, anche perché, morto uno, avanti il prossimo. Voglio dire, non si tratta della cattiveria di un singolo soggetto isolato per cui conviene augurarsi che si tolga dalle scatole il prima possibile, ma della follia di un sistema in cui il fatto che miliardi di esseri viventi vengano ridotti a meno di cose, imprigionati, sfruttati fino allo sfinimento ed uccisi è considerato “normale” e perfettamente “naturale”. E il sistema non lo si combatte a forza di accettate verbali contro i singoli, ma smantellando dall’interno quei meccanismi culturali, sociali, economici e politici che ne permettono il mantenimento.
Se la scuola non funziona, per dire, non vado a prendermela col singolo insegnante, ma cerco di analizzare e capire le falle del sistema. Se la sanità fa schifo, non me la prendo col singolo medico, ma sempre con il sistema che ha permesso la degenerazione di determinati servizi sociali. Certamente anche il singolo è responsabile perché poi il sistema è fatto di singoli, ma è al tempo stesso vittima di una terza entità che è l’ingranaggio culturale nel suo complesso e dal quale è difficile, ossia rimanendone compresi all’interno, auto-osservarsi con capacità critica.
Quindi, che un cacciatore o un macellaio sia morto o meno e che si esulti o meno per la sua dipartita dal mondo, non sposterà di una virgola il sistema sfruttamento animale perché tanto, il posto di chi è anch’egli carne da macello, seppure questa volta simbolica, sarà comunque rimpiazzato dalla prossima risorsa rinnovabile del sistema forza lavoro, non diversamente dagli animali che ha ucciso.
La società dello sfruttamento del vivente è un tritacarne in cui vittima ed aguzzino finiscono per perire insieme. E se non si capisce questo allora non si è compreso nulla dell’antispecismo.
Odiare la specie umana, i propri simili, è un atteggiamento di immaturo solipsismo. Di totale chiusura. Un atteggiamento che nuoce profondamente alla liberazione animale.
Attenzione, questo non significa però che automaticamente dovrei considerare alla stessa stregua la tragedia dello sfruttamento animale con il singolo caso del cacciatore che è rimasto ferito da un suo collega durante una battuta di caccia. C’è un distinguo da fare e a me pare dettato dal semplice buon senso: gli animali indifesi che si trovano a vivere una non-vita dentro un allevamento con destinazione finale al macello di certo non hanno alcuna colpa della loro condizione. Si sono trovati a nascere dentro una gabbia, non hanno avuto scelta, la loro orrenda sorte è stata segnata sin dall’inizio. E questa è indubbiamente una tragedia. Il cacciatore invece sceglie consapevolmente di girare per i boschi con un fucile carico. È responsabile delle proprie azioni e degli effetti che potrebbero derivarne. Quindi, permettetemi di dire che il suo “incidente” mi colpisce meno della sofferenza di un animale che viene torturato nei laboratori. Ma questo non perché, si badi bene, io ami gli animali più degli uomini, o sia misantropa, o faccia un distinguo tra valore della vita di un topo e valore della vita di un cacciatore, ma semplicemente perché lo sanno pure i bambini che chi gioca col fuoco finisce col bruciarsi e che a volte è perfettamente normale che le vittime si ribellino e finiscano con l’avere la meglio sul proprio aguzzino. La prendo quindi, questa volta sì, come una legge di natura. Non sempre i predatori hanno la meglio, a volte la preda ce la fa a scappare o a ribellarsi. Il cacciatore è un predatore artificiale (e non avrebbe necessità di esser tale), se diviene preda per sbaglio, per incidente, per puro caso, lo metto nel conto degli effetti derivabili dalla sua infelice scelta. Ci sono casi di felini che hanno aggredito il domatore, di orche che hanno tirato sott’acqua il loro addestratore, ma anche casi di ferimenti riportati in seguito a contatti ravvicinati con animali che, causa il loro lungo stato di detenzione e maltrattamento, hanno reagito in maniera aggressiva verso gli inservienti.
Voglio dire, se io tengo una tigre chiusa dentro una gabbia è ovvio che quella prima o poi, stanca di essere tenuta prigioniera, si innervosisce; se poi un bel giorno riesce ad addentarmi un braccio, ebbè, ma di chi è la colpa? Della tigre o mia che la tenevo rinchiusa?
Quindi, ricapitolando, premesso che chi sfrutta direttamente ed uccide direttamente gli animali, ma anche chi partecipa – silente o meno, consapevole o meno – di questo sistema di sfruttamento, esercita comunque violenza; premesso che però la questione dello sfruttamento animale non si risolve meramente accusando l’altro di essere violento con maniere verbalmente aggressive; premesso che ogni vita persa – pure quella del cacciatore, del macellaio, del torero – è sempre una vita persa, a doppio titolo: persa perché estinta, persa nel senso di aver perso un’occasione per comprendere cosa sia il rispetto dell’altro; premesso altresì che essere antispecisti significa lottare per scardinare questo sistema e non per distruggere l’altro – a parole o nei fatti – ché la visione dicotomica di un’umanità divisa in buoni e cattivi la lascio volentieri a certi americani, ai veterotestamentari, a chi crede nella tentazione del diavolo e a chi ha una maniera davvero semplicistica e riduttiva di vedere la realtà, non comprendendo la complessità del tutto; premesso questo e forse anche altro che sicuramente mi sono scordata di dire, chi accusa gli animalisti di essere violenti, a volte si dimentica – o non comprende – che esiste una violenza effettiva, che è altrove, negli atti, più che nelle parole e questo continua a rimanere per me abbastanza paradossale. Ciò detto, non giustifico chi inneggia a mandare a morte il macellaio, il vivisettore, il pellicciaio ecc.; inneggio invece ad un mondo liberato dall’oppressione e voglio liberarlo costruttivamente, non trasformandomi a mia volta in un boia.

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