lunedì 4 maggio 2015

Sperimentazione sugli animali: intervista a Massimo Filippi

disegno di Luigia Marturano
fonte: bastaschiavi.blogspot.it
Ringraziamo Massimo Filippi per averci concesso questa intervista che pubblichiamo con piacere, certi che i suoi interventi in seno al dibattito sulla sperimentazione sugli animali siano sempre un'occasione importante per affrontare una questione che merita attente riflessioni.   

Che si parli di vivisezione o che si trattino altre questioni inerenti all’animalità sembra spesso che non si riesca a superare un dialogo fra sordi che vede il confronto ridotto a sterili slogan.
Da più di un secolo si dibatte sulla questione se la sperimentazione animale sia più o meno lecita eticamente, se essa sia più o meno valida su un piano prettamente scientifico, ma poco o nulla – nei fatti – è cambiato dai tempi del Brown Dog Affair: si è detto quasi tutto ciò che si poteva dire, facendo ricorso anche ad argomenti che dovrebbero avere da tempo innescato un processo di cambiamento, ma che restano nel circuito chiuso del variegato movimento antivivisezionista. Come accade in politica, nelle sedi istituzionali, le tesi contrapposte restano tali; anche dopo estenuanti dibattiti parlamentari, alla fine ciascuno resta della propria idea. Come uscire da questa impasse?


Credo che abbiate toccato due questioni. La prima è che il mondo antispecista nel suo insieme è poco ascoltato dalla società in generale. La seconda è che il dialogo interno all’antispecismo è troppo poco informato e strutturato, troppo naif e fuorviante. Allora, come uscire da queste impasse? Dalla prima, ovviamente, ricordandoci che lo specismo ha avuto almeno 12.000 anni per plasmare strutture economiche e coscienze, ragione per cui dobbiamo continuare a sostenere l’evidente fino a che assuma sufficiente visibilità sociale: gli animali soffrono e muoiono, come noi, e questo sistema di sfruttamento generalizzato dell’“Animale” è insostenibile da qualsiasi prospettiva lo si guardi e va combattuto sul piano politico. Il che, a ben riflettere, risponde anche alla seconda questione: fino a che non saremo in grado di accettare una critica costruttiva, interna al movimento, che permetta di mettere alla prova i nostri argomenti per valutarne la sostenibilità pubblica (le critiche esterne saranno certamente sempre più infide e feroci), continueremo a ripetere dogmi dal vago sapore religioso. Così da un lato rimarremo inascoltati e dall’altro continueremo a perderci in dispute poco fruttuose, se non addirittura dannose. Dispute che certo non faciliteranno l’incontro.

“La vivisezione è un metodo di studio e ricerca consistente in operazioni di dissezione effettuate su animali vivi e privi di anestesia. Il termine è usato come sinonimo di sperimentazione animale dalle organizzazioni che si oppongono a tale sperimentazione, questo uso tuttavia è considerato strumentale e improprio dalla comunità scientifica. La stessa opinione pubblica infatti reagisce in modo diverso e le risposte cambiano radicalmente a seconda che gli si chieda se è contro la vivisezione o se è contro l’impiego degli animali nel progresso della medicina. Per questo motivo coloro che svolgono ricerca utilizzando i modelli animali contestano tale equivalenza semantica”. Questo alla voce “vivisezione” secondo Wikipedia. È importante, a tuo avviso, questa equivalenza semantica? Se sì, perché?

Non mi pare che ci troviamo di fronte a una questione semantica ma all’orrore estremo. Tradotto: abbiamo così tanti buoni argomenti contro la sperimentazione sugli animali che non vale la pena lasciarsi distrarre da aspetti in qualche modo marginali. Anzi, i nostri argomenti sono così inattaccabili – non abbiamo alcun diritto a far soffrire e uccidere chi può soffrire e può morire – che possiamo anche concedere questo presunto “vantaggio” ai nostri detrattori, se pensano di cavarsela così facilmente. Cambiare una parola non basta a cambiare i connotati di una delle più odiose pratiche di dominio. Il problema è che, evidentemente, molt* animalist* non hanno ancora compreso appieno la forza dirompente dell’antispecismo e, seppur in buona fede, lasciano nelle mani di chi compie sperimentazioni sugli animali la decisione sull’agenda e sugli argomenti della discussione. Penso che quanto detto rifletta la pervasività dell’antropocentrismo: ci impegneremmo in simili battaglie semantiche se avessimo a che fare con la sofferenza e la morte di umani? Passeremmo amabilmente il nostro tempo a decidere se è meglio usare il termine “tortura” o quello di “interrogatorio particolarmente violento”?

Secondo notizia di questi giorni è stata certificata la validità dell’oltre un milione di firme raccolte dai promotori dell’iniziativa Stop Vivisection. Nei prossimi tre mesi le organizzazioni promotrici della campagna saranno invitate a Bruxelles per dare voce alle loro idee, accompagnate da scienziati e giuristi a sostegno della propria causa. La Commissione dovrà poi decidere se e in che modo potrà procedere per rendere l’iniziativa una proposta di direttiva, cosa non scontata. Cosa aspettarci da questo passaggio istituzionale?

Rispondo a questa domanda con un’altra domanda: siamo d’accordo che senza lo sfruttamento animale non esisterebbe la struttura economica e sociale in cui viviamo? Se sì, pensiamo davvero che un milione di firme avranno una qualche rilevanza politica e potranno portare a qualche risultato effettivo, tangibile, visibile? Certo, questa iniziativa è un bell’esempio di testimonianza, un bell’esempio che mostra quante persone accettino di mostrare pubblicamente il proprio lutto per la morte degli animali. E sarebbe stata ancora più bella se non fosse stata infarcita di argomenti indiretti. In quanto a giuristi e scienziati: non mi pare che il Diritto, la Legge e la Scienza siano così favorevoli ai non umani. Di cosa parleranno, allora, questi giuristi e questi scienziati ai politici e ai burocrati di Bruxelles? Del dolore animale o, ancora una volta, degli interessi degli umani? Pensiamo davvero che supereremo il paradigma antropocentrico ribadendone continuamente le ragioni e la struttura?

Lo schieramento antivivisezionista è ancora lacerato al suo interno e si fatica a trovare un punto di equilibrio (se mai ce ne possa essere uno) fra le tesi etiche e quelle scientifiche. Si riuscirà mai a trovare unità nella lotta alla vivisezione?

Spero di sì. Ma qui bisogna chiarirsi. Stiamo parlando di un movimento politico liberazionista o di un gruppo di metodologi della scienza? Perché, se vale la prima opzione, allora le tesi non possono che essere etiche e politiche: la critica alla sperimentazione animale è parte di una critica più ampia alla mercificazione biocapitalista dei corpi e allo sfruttamento/controllo della nuda vita, in cui sono presi sia gli animali umani che gli altri animali. Se invece vale la seconda, ossia si tratta di un gruppo di scienziati che per motivi d’ordine tecnico, cioè ancora umano, troppo umano, si oppongono alla sperimentazione sugli animali, non possiamo che invitarli a partecipare a tutte le attività della scienza (andare in laboratorio, fare esperimenti, pubblicare, trovare cure, vincere concorsi universitari) e sperare che poi siano così efficaci da convincere i loro colleghi a sospendere questa pratica in quanto inutile o dannosa. In seguito, al pari di tutti gli altri cittadini, potranno o meno unirsi a noi, ossia ad un movimento politico liberazionista, per rifare il resto del mondo, dagli allevamenti ai mattatoi, dagli zoo ai circhi, ecc., ecc., ecc.

In un’Europa sempre più indifferente alla sorte dei più deboli (umani e non umani) è possibile credere ancora in un progresso morale della nostra civiltà che possa coinvolgere anche gli animali prigionieri negli stabulari?

Che fare altrimenti? Andiamo tutt* a casa a vederci un bel programma di intrattenimento televisivo? Questa sfiducia è la presa d’atto della forza del potere o è lo stratagemma del potere per accrescere la sua forza e la nostra disperazione?

Mors tua, vita mea” è l’argomentazione più utilizzata a difesa della sperimentazione animale. Una questione che in molti considerano insormontabile e che, forse per questo motivo, scelgono di saltare a piè pari. Il fatto di non affrontare un nodo così importante della questione crea un vuoto incolmabile che spesso viene eluso aggrappandosi, come ultima spiaggia, alle argomentazioni dell’antivivisezionismo scientifico (AVS) per poter controbattere. Come ti poni tu di fronte a questa questione?

Credo di aver già risposto a questa domanda in più occasioni, sia verbalmente che per iscritto (cfr. www.liberazioni.org). In breve, “mors tua, vita mea” equivale a dire che il più forte prevale sul più debole.
Che argomento è questo? L’argomento secondo cui sarebbe la forza a creare il diritto. Milioni di umani sono morti sotto i colpi dell’ideologia del più forte e stanno morendo tuttora. Miliardi di animali sono morti e stanno morendo per la stessa ragione. E io dovrei dimenticarmi di tutti questi morti, di questa immane sofferenza, per dire al più forte che la sua ideologia va solo un po’ abbellita, ritoccata qua e là, resa più umanitaria? No, non credo di poterci riuscire. Ho troppo rispetto per le vittime, non intendo offenderle una seconda volta.


In più occasioni sei andato a parlare di sperimentazione animale all’interno degli atenei, ritrovandoti a discuterne direttamente con chi ne ha fatto una professione. Una scelta, la tua, che è stata criticata da alcuni anche ferocemente. Sono volate accuse molto pesanti; sei stato accusato di scendere a patti “con il nemico”, c’è chi è arrivato persino a ricorrere alla calunnia, tacciandoti di essere tu stesso un vivisettore. Partendo dal presupposto che riteniamo tu non debba alcuna giustificazione di fronte a simili insinuazioni, ci interessa capire le motivazioni che ti hanno spinto ad affrontare questi temi con chi di fatto (ci preme sottolineare che non stiamo esprimendo una valutazione sulle singole persone, bensì prendendo atto delle tragiche conseguenze del loro operato) rende oggi la sperimentazione animale una realtà concreta e tangibile, con tutta la sua portata di disperazione. Qual è il fine – se di fine possiamo parlare – che immagini? Ritieni sia possibile smuovere la macchina agendo direttamente sugli ingranaggi – e chi li guarda e li studia con la speranza di diventare ingranaggio a sua volta – per rimettere in discussione la macchina stessa?

Premesso che ho partecipato a quattro incontri di questo genere e che solo due si sono svolti in sedi universitarie, e che non ho parlato di sperimentazione sugli animali, ma delle ragioni etiche e politiche che mi spingono a condannarla senza riserve, lo sapete che a tre di questi quattro incontri hanno partecipato anche esponenti di primo piano dell’AVS? E che costoro, giustamente, non sono stati accusati di scendere a patti con il nemico né di essere dei vivisettori?
Quindi, il problema è un altro: c’è chi è così poco abituato a discutere criticamente da confondere il bersaglio della propria polemica, andando ad attaccare chi prova a scardinare dogmi che trovano la propria “forza” solo nella ripetizione rituale e sta cercando, muovendosi su un piano etico e politico, di sviluppare, pur con tutti i suoi limiti, una critica radicale alla sperimentazione sugli animali. Poi, i social media fanno il resto: tu scrivi interi saggi, documentandoti per mesi, e c’è chi ti “risponde” in due secondi e con quattro parole. Detto questo, passo alla vostra domanda principale: a che pro? Penso che parlare all’interno delle istituzioni dove si pratica la sperimentazione sugli animali, e non alle singole persone, per portare nella sfera della dicibilità pubblica l’orrore che lì si compie ogni giorno, sia un gesto di conflittualità squisitamente politico e – lasciatemi aggiungere – coraggioso. Proprio perché l’opposizione alla sperimentazione sugli animali non può che essere politica, non vedo altra soluzione che rimboccarsi le maniche e metterci la faccia, scendendo, senza timori, nell’agorà. Con gli argomenti giusti. Per alimentare, attraverso questi “incontri”, un dibattito effettivo all’interno dell’istituzione scientifica, un dibattito che, ignorato fino a pochi anni fa con un’alzata di spalle, pare oggi essere dotato di un certo grado di “contagiosità” almeno per la società civile che sembra essere sempre più attenta alla questione e che, auspicabilmente, dovrebbe sentirsi chiamata a contribuire ad indirizzare gli sviluppi della scienza (il suo senso, ciò che può o non può fare, il suo destino e i suoi fini). O pensiamo di risolvere il problema parlando fra di noi, immaginando di essere un circolo di epistemologi, in una sorta di bolla spazio-temporale, nascosti dietro pseudonimi e gli schermi dei nostri computer e dei nostri telefonini?


Noi e loro, buoni e cattivi, animalisti e antispecisti buoni, vivisettori (ma non solo) cattivi: spesso “gli animalisti”, “gli antispecisti”, “gli...”, vengono accusati di giudicare “gli altri”, di voler imporre la “loro (nostra) verità”, di considerarsi (ci) superiori rispetto ai più. Sappiamo bene che dietro a queste accuse si nasconde il desiderio di interrompere un possibile dialogo, sfuggendo soprattutto al peso di sentirsi in qualche modo obbligati ad affrontare le questioni (vitali) che vengono poste. Eppure questa percezione ha anche altri perché e, a chiudere il cerchio, rigettando le colpe su “chi non (ci) capisce” si rischia di compiere la stessa operazione. Esiste veramente un “noi” e un “loro”? È possibile pensare e ripensarci senza creare nuove – contraddittorie – distinzioni, dove il noi e il loro viene riproposto all’infinito? Forse per re-imparare a “sentire con” (prima ancora quindi di poterne parlare) serve veramente disimparare il linguaggio umano dominante, una lingua che ci ingabbia impedendoci di pensare, agire e, prima ancora, percepire? Aprirci alla molteplicità di lingue esistenti, dislocanti, perturbanti e in grado di inserirci in un piano di immanenza è base imprescindibile al dialogo?


Vi siete già risposti. Essere antispecisti non basta. Sottolineare la presunta purezza ascetico-sacerdotale dell’antispecismo è politicamente controproducente oltre che fattualmente sbagliato. Posso solo aggiungere che la logica dell’utile/inutile (per l’Uomo) e la scienza biocapitalista, da cui molti animalist* non mi pare prendano le distanze, parlano il linguaggio del noi e del loro. Il linguaggio dell’identità, della purezza, del disconoscimento dell’Altro.



Massimo Filippi, professore di Neurologia presso l’Università “Vita e Salute” di Milano, si occupa da anni della questione animale da un punto di vista filosofico e politico. È redattore di Liberazioni. Rivista di critica antispecista (www.liberazioni.org). Ha pubblicato Ai confini dell’umano. Gli animali e la morte (Ombre corte 2010), Nell’albergo di Adamo. Gli animali, la questione animale e la letteratura (con F. Trasatti, Mimesis 2010), I margini dei diritti animali (Ortica 2011), Natura infranta (Ortica 2013), Crimini in tempo di pace. La questione animale e l’ideologia del dominio (con F. Trasatti, Elèuthera 2013) e Penne e pellicole. Gli animali, la letteratura e il cinema (con E. Maggio, Mimesis 2014). Tra gli altri, ha curato l’edizione italiana di Un’eterna Treblinka. Il massacro degli animali e l’Olocausto di Charles Patterson (2003), Fenomenologia della compassione. Etica animale e filosofia del corpo di Ralph R. Acampora  (2008), Zoografie. La questione dell’animale da Heidegger a Derrida di Matthew Calarco (Mimesis 2012) e Manifesto queer vegan di Rasmus Rahbek Simonsen (2014). Sono in corso di pubblicazione: Corpi che non contano. Judith Butler e gli animali (con M. Reggio, Mimesis) e Sento dunque sogno (Ortica).









Approfondimenti tratti da Liberazioni- Rivista di Critica Antispecista:


Penso di sì-Risposta all'articolo di Stefano Cagno, L'antivivisezionismo scientifico è controproducente?