sabato 19 dicembre 2015

La funzione pedagogico imperial-specista del giocattolo - di Rodrigo Codermatz

Diamo il nostro affettuoso benvenuto a CaVegan, il blog degli amici Rodrigo e Tamara,
pubblicando questo interessante e -considerata la prossimità alle feste natalizie- calzante approfondimento di Rodrigo, ringraziandolo per averci concesso di ospitare queste riflessioni
anche sul nostro blog.
Buon lavoro a CaVegan da tutti noi!



La funzione pedagogico imperial-specista del giocattolo
di Rodrigo Codermatz


Fonte: https://cavegan.wordpress.com/2015/12/14/la-funzione-pedagogico-imperial-specista-del-giocattolo/


Passeggio per la città e osservo la vetrina di un negozio di giocattoli: una linea di una nota marca riproduce modellini delle più invasive e perniciose attività umane volte allo sfruttamento e alla morte animale; ecco allora pescatori in un tranquillo fiume canadese, scene di caccia alla marmotta, safari africani e poi molte realtà quotidiane come lo zoo, il circo, il campo cinofilo e l’addestramento dei cani, c’è addirittura il bracconiere in quad. Più in là il maneggio e, infine, la ciliegina sulla torta: un allevamento con le mucche costrette alla mangiatoia.


Mi rendo conto più che mai che la società ha scelto per il bambino il suo nuovo debole: l’animale va sostituendo pian piano il povero indiano delle nostre vecchie scorribande nei campi o per le vie del paese vestiti da cow-boy.

Osservo bene questi giocattoli con incredulità: stiamo mettendo nelle mani dei nostri bambini affinché ci giochino, presentiamo alla loro fantasia e immaginazione degli allevamenti, dei maneggi, delle battute di caccia, dei safari, dei delfinari, dei circhi, degli zoo! Ma abbiamo a cuore le loro vite, il loro futuro o lasciamo che il sistema ce li trasformi in automi devastatori, distruttori, in veri e propri serial-killer?

Ci rendiamo conto cosa vuol dire far giocare un bambino con un allevamento, con una serie di mucche messe in fila come rotelle di un ingranaggio? Ci rendiamo conto cosa vuol dire trasformare in gioco un’incursione venatoria in una foresta tropicale, la cattura e la deportazione se non la stessa uccisione in loco di diverse specie animali? L’imprigionamento di specie abituate a muoversi, nuotare e volare in uno spazio di centinaia di chilometri ci è presentato ideologicamente come gioco educativo o “tradizione” ma in realtà è vero e proprio messaggio subliminale che rivendica la podestà umana sull’animale.


Questa specie di giocattoli e di mercato è in parte una cifra della crisi del ruolo del genitore nella nostra società, un genitore che svaluta e semplifica sempre più le sue funzioni educative lasciando che la società veicoli e controlli le inclinazioni e la personalità del bambino; un genitore acritico, superficiale, disattento (quante volte compra senza pensare?), per nulla lungimirante, suggestionabile, immaturo, tutto preso a far sì che il figlio “si faccia strada”, primeggi, eccella, si distingua dagli altri: questa logica combacia in fin dei conti con la logica degli allevamenti e dei circhi e fa del bambino uno status symbol quale l’automobile, la casa, le vacanze, o un mezzo di rivalsa su se stessi, sulle proprie frustrazioni e sugli altri in un rapportarsi sempre più competitivo.


Questi giocattoli entrano nell’ambiente del bambino, nel suo cassetto, nella sua cesta, nella sua stanza, e assumono subito, come d’altronde tutte le cose che abitano l’infanzia, un’indelebile funzione mitologico-pedagogica con un messaggio ben definito; un messaggio dittatoriale, che non ammette repliche, a-dialettico che impone una certa visione della realtà.

Attorno a questa materialità pedagogica si istituisce un’architettura del trovarsi gettato che prende corpo e si incarna nel bambino: è la trans-substantiatio ossia la conversione dell’ambiente nel corpo che segna sempre un ritardo, un’isteresi, come disse Sartre parlando di Madame Bovary di Flaubert, uno scarto biologico sull’emergenza del reale.(1)

Quand’ero bambino i nostri nonni ci parlavano del re Vittorio Emanuele III ch’era stato sul campanile del nostro paese, di Churchill e del suo sigaro, di Stalin, vedevamo film in bianco e nero sulla Seconda Guerra Mondiale, su Hitler e il nazismo: questa era la guerra che noi incorporavamo e i nostri soldatini erano tedeschi, inglesi, francesi, russi, giapponesi e italiani; nella nostra guerra non c’era la bomba atomica né il Vietnam e neppure il terrorismo, troppo attuali, ma neanche le foibe, i titini e i partigiani, troppo vicini, e l’Africa entrava nei nostri giochi solo grazie agli elefanti o rinoceronti in gomma e Tarzan. Una guerra di armi convenzionali, battaglia corpo a corpo, di trincea e non di rifugi antiatomici, “guerra di confine”, “invasione” territoriale tra confinanti: non conoscevamo il colonialismo e lo sfruttamento.

La guerra che l’ambiente m’aveva fatto metabolizzare e incarnare era quella che mio padre visse in prima persona, quando, a sua volta, giocava agli indiani e cow-boy o alle guerre Napoleoniche e prussiane: mio padre non giocò mai alla Guerra Mondiale.
Questo scarto temporale, questo “deposito” (come si dice di un vino) è l’anima (come quella dell’aceto) che nella trans-substantatio si incarna in noi e diviene ideologia.
Veri e propri strumenti ideologici, i nostri giochi infantili influenzano ora emotivamente e affettivamente la nostra capacità media di comprendere entro il concetto di guerra anche i conflitti “periferici” del terzo mondo o del sud-est asiatico e, non avendo metabolizzato l’imperialismo e il colonialismo, siamo ancora incapaci di inserire un episodio terroristico in un quadro bellico più vasto, in un quadro di sfruttamento, estorsione, ed estromissione.
E in questi giorni ne vediamo il risultato: la nostra generazione è cresciuta credendo e vedendo la guerra solo come una questione occidentale; esiste solo se colpisce l’Italia, l’Inghilterra, la Germania o la Francia; la guerra nelle altre zone non esiste (o per lo meno, questo è il nostro vissuto), rimane ai margini del nostro sguardo, del nostro interesse, della nostra preoccupazione.
Le istanze culturali del nostro ambiente si fissano in noi come sguardo e visione sul mondo, fornendoci uno scenario virtuale in cui ci muoviamo a nostro agio relegando queste realtà periferiche nell’intravisto, nello “sfocato”.


Così il cacciatore in quad, l’allevamento o il maneggio, passando per le mani del bambino, gli insegnano una volta per tutte cosa si deve fare dell’animale: e qual è il messaggio di questi giocattoli per il bambino? Semplicemente che l’animale va rinchiuso, munto, sellato, trasportato, esibito, educato, macellato proprio come i nostri giochi ci dicevano che l’indiano è cattivo, che va stanato, rincorso, ucciso o catturato e rinchiuso in una riserva.
Questi giocattoli trasfigurano e distorcono la natura dell’animale strappandolo al suo habitat e inserendolo nel processo produttivo ed economico umano: diventano strumenti dell’ideologia specista e antropocentrica; veicolano un interesse, sono in malafede tanto quanto la mucca di Heidi, poiché, anche se a differenza di questa mostrano al bambino la situazione più o meno reale in cui vivono le mucche, al contempo lo informano che è giusto così, e l’informazione diventa imperativo.

Ricordo le confezioni in cartone con foreste equatoriali o paesaggi canadesi: era più bella la scatola del giocattolo; tolta questa restava l’animaletto che noi facevamo muovere sulle piastrelle o sul pavimento in parquet e perdeva tutta la sua poesia. Ora le piastrelle sono entrate nella confezione dove asettici laboratori e nude e fredde stalle fanno da scenario a una fila di mucche.
Eravamo liberi di prendere l’elefante e farlo volare, con lui toccavamo le cose, esploravamo il mondo, lo facevamo seguire una traccia del tappetto o entrare in una macchia d’acqua, lo mettevamo all’ombra di un geranio in terrazza: oggi il gioco ha delle regole ben precise, e per definizione la mucca deve rimanere immobile e costretta alla mangiatoia imprigionata da due grate d’acciaio.

Il messaggio specista veicolato in questi giochi – l’animale va sequestrato, rinchiuso, sfruttato, torturato e ucciso a fini umani – oltre che riprodurre lo specismo, si inserisce in un programma ben preciso che ha come obiettivo l’allineamento emotivo del bambino con l’adulto e la società a cui appartiene. Il bambino deve essere allontanato per forza dal suo rapporto empatico-soggettivo-fantasioso con l’animale, rapporto di tenerezza e compresenza, e avvicinato almeno parzialmente alla funzione e posizione che questo ha nel mondo oggettivo degli adulti: essere una cosa.

Scrive Bruno Bettelheim:

“I bambini hanno una naturale affinità con gli animali e spesso si sentono più vicini a loro che agli adulti, nel loro desiderio di condividere la facile vita, di libertà istintuale e di godimento, dell’animale. Ma a questa affinità si accompagna anche un’ansia del bambino: quella di non essere forse perfettamente umano come dovrebbe essere.” (2)

L’allevamento o il maneggio e gli altri giocattoli simili, anticipando dei modi di attività caratteristici dell’età adulta (3) e imitando l’adulto e il suo mondo, creano situazioni-modello per il controllo della realtà, fungono da esperienza e da cauta pianificazione dell’avvicinamento alla realtà sociale e all’immagine che questa ha dell’animale.
Questi giocattoli facilitano il compito del genitore nel presentare la realtà traumatica dell’animale al figlio ancora “empatico”: spiegano in vece sua al figlio il triste destino dell’animale e gli mostrano cos’è un allevamento, allontanando definitivamente la possibilità di un incontro proto-etico e deresponsabilizzando il genitore.

Al bambino quindi è richiesto di metabolizzare la realtà produttiva che per eccellenza sfrutta e uccide l’animale, l’allevamento, in cui l’animale diviene ruota di un meccanismo, oggetto algebrico, astrazione, perimetro, processo, serialità: e in questo i genitori svolgono la loro funzione di conferma presentando l’animale nello zoo (serialità delle gabbie, delle specie e degli habitat), nel circo (serialità della performance), nella fattoria didattica (serialità dell’addomesticamento dove l’animale è presentato nella sua manipolabilità), nel negozio di animali e nel commercio di animali di razza (serialità dell’allevamento) e infine negli scaffali del supermercato (serialità dell’animale come carne confezionata).
Serialità che ben si accorda con la richiesta di ritualità del gioco come ricerca di punti di appoggio e di presa sul mondo dell’adulto semplificato in pochi gesti ripetitivi (pensiamo al fascino del fare il chierichetto in molti bambini che poi diviene una componente importante nella fede dell’adulto).
Il gioco come metabolizzatore inscrive quest’immagine dell’animale come oggetto seriale nella formazione dell’io tecnico-manipolatore.
Nel gioco c’è alla fine un incontro di questi due percorsi, tra il bambino e l’adulto, e un corrispondere e allinearsi reciproco sul piano emotivo: per questo, potremmo dire assieme a Erik H. Erikson che “il gioco è una funzione dell’io, un tentativo di sincronizzare i processi sociali e fisici alla propria individualità”:(4) così “nel piccolo docile mondo dei giocattoli”, che Erikson chiamava microsfera, il bambino costruisce il proprio io inserendovi anche l’animale in gabbia e l’allevamento.

Se il messaggio di partenza che i genitori, l’ambiente e la cultura danno al bambino è che l’allevamento è normale e necessario perché fa parte del mondo adulto, il giocattolo rafforza il messaggio divenendo vera e propria funzione sociale ossia una modalità di rapporto con l’altro, una struttura comunicativa dell’intersoggettività come allineamento, consenso, pensiero unidimensionale che metabolizza e rielabora socialmente lo sfruttamento animale e lo riproduce: il gioco diviene, insomma, quella zona di rifugio che squalifica ed esorcizza il male annientando definitivamente l’animale.
Il giocattolo non forma quindi solo il bambino ma la società stessa, costringe la realtà nelle sue forme: i giochi diventano modelli di realtà e, in questo caso, contribuiscono a far sì che l’adulto di domani non vedrà una mucca che in un contesto zootecnico.

I genitori hanno perciò una responsabilità non indifferente nello scegliere il giocattolo da acquistare e mettere nelle mani del loro bambino e già per troppo tempo hanno scelto fucili e pistole.
In una società, che si sta connotando infantilmente e che acquisisce sempre più bisogni e comportamenti di dipendenza neonatale, il giocattolo, assumendo l’immunità e l’innocenza infantile, diviene potente strumento di discredito (dire ad un uomo che sta giocando) e di de-responsabilizzazione (sta solo scherzando, lo fa per gioco).
Il bambino giocando ad allevare, ad ammaestrare, a cacciare, catturare, a esporre ed esibire l’animale impara a de-responsabilizzare se stesso e gli altri davanti a queste pratiche persecutive.
Anche l’animale in carne ed ossa come giocattolo rientra in questo quadro di de-responsabilizzazione che porta alla sua completa reificazione e ai modi di rapportarsi connessi a questa (acquisto, maltrattamento, abbandono, distruzione).

(1) JEAN-PAUL SARTRE, Critica della ragion dialettica, Il Saggiatore, Milano 1963, trad. it. Paolo Caruso, p. 58

(2) BRUNO BETTELHEIM, Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicanalitici delle fiabe, Feltrinelli. Milano 1982, trad. it. Andrea D’Anna, p. 279

(3) PHYILLIS GREENACRE, Studi psicoanalitici sullo sviluppo emozionale, G. Martinelli Editore, Firenze 1979, trad. it. Alberto Ponsi, p. 376

(4) ERIK. H. ERIKSON, Infanzia e società, Armando Armando Editore, Roma 1966, trad. it. Luigi Antonello Armando, p. 197

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